Laura Serrani Counselling and Psychotherapy

THERAPY FROM BOROUGH & CANARY WHARF, CENTRAL LONDON

Bridge- Educare nella scuola dell’infanzia: il peso emotivo e relazionale del lavoro educativo

Educare oggi: un lavoro visibile solo a metà
Oggi educare non significa più soltanto “insegnare” nel senso tradizionale del trasmettere nozioni. In realtà, nell’atto dell’insegnare convivono due dimensioni fondamentali: quella dell’educare, che secondo l’etimologia implica il “trarre fuori”, ovvero favorire l’emergere delle potenzialità interiori di ciascun individuo; e quella dell’insegnare nel senso di “imprimere segni nella mente”, orientare e dare forma al pensiero e alla conoscenza. Educare oggi significa anche accogliere, contenere, costruire relazioni. Significa stare ogni giorno a contatto con fragilità invisibili, famiglie disorientate, bambini in crescita e sistemi istituzionali spesso rigidi o in affanno. In questo contesto, l’insegnante svolge un lavoro tanto cognitivo quanto emotivo, specialmente nella scuola dell’infanzia, dove il linguaggio si esprime attraverso sguardi, gesti, ascolto corporeo e disponibilità relazionale. Proprio per questo, l’apprendimento non può prescindere dalla dimensione affettiva: prima di tutto, è un’esperienza emotiva! Ma cosa significa tutto questo dal punto di vista dell’insegnante? Proviamo a guardare attraverso i suoi occhi.

Presentazione di Lia Fiore
In questo articolo, vorrei portare alla luce il vissuto di chi ogni giorno vive questo ruolo con dedizione e consapevolezza. Per farlo, ho intervistato Lia Fiore, pedagogista e insegnante con una lunga esperienza nella fascia 0-6 anni. Oggi è anche coordinatrice di plesso, referente del sistema integrato 0-6 e figura di riferimento per la formazione nel suo Istituto Comprensivo.

Famiglie e scuola: un equilibrio che cambia
Negli ultimi anni, la scuola dell’infanzia ha affrontato trasformazioni profonde. Come racconta Lia:

“Non ho visto grandi cambiamenti nella composizione delle famiglie, ma sono aumentati i bambini con disabilità. Notiamo anche una maggiore partecipazione dei padri e una maggiore consapevolezza educativa, grazie, forse, alla crescente frequenza ai nidi”.

Le richieste sono aumentate, ma le risorse no:

“Ai genitori serve cura e attenzione quasi quanto ai bambini. Ma le forze in campo sono poche. Nella scuola dell’infanzia oggi abbiamo solo due ore al mese per progettare. È assurdo pensare di sostenere così relazioni educative complesse”.

L’inclusione: una responsabilità condivisa, ma solitaria
“Inclusione” è una parola chiave oggi, ma cosa significa nella pratica? Lia spiega:

“Quando la disabilità si intreccia con background migratori, la complessità cresce. Il vero ostacolo non è solo la lingua, ma la distanza culturale, emotiva, il senso di estraneità reciproca. Siamo tutti un po’ stranieri”.

In questi casi, il carico emotivo e professionale sull’insegnante si amplifica. Spesso, le risposte arrivano dalla buona volontà dei singoli:

“Le azioni concrete che danno piccoli ma fondamentali risultati sul benessere dei bambini riescono ad aprire spiragli, ma purtroppo è ancora troppo spesso lasciato all’iniziativa personale, alla buona volontà dei singoli operatori, senza spazi di vera accoglienza: tutto improvvisato.”

Per un’inclusione sostenibile serve struttura, lavoro in rete e confronto tra diverse professionalità.

Fragilità che parlano piano: bisogni nascosti e contenimento
Come scrive Bion (1962), contenere significa trasformare il caos emotivo in qualcosa di pensabile. Nella scuola dell’infanzia, questo è spesso un compito silenzioso e urgente. Lia sottolinea:

“I genitori hanno bisogno di riferimenti. Gli insegnanti hanno bisogno di tempo. I bambini hanno bisogno di adulti che sappiano reggere la complessità, senza esserne travolti”.

Queste parole descrivono con chiarezza la rete di bisogni che attraversa ogni relazione educativa e la complessità delle dinamiche che da essa possono scaturire.

La burocrazia come ostacolo all’inclusione
La relazione scuola-famiglia spesso è complicata dalla burocrazia:

“Molti genitori firmano moduli che non comprendono, per proteggere i figli ma a discapito della loro identità e ruolo genitoriale”.

L’inclusione richiede comunicazione chiara e tempo, non solo buone intenzioni.

Quando la relazione educativa diventa trasformativa
Lia racconta di un bambino con gravi difficoltà comunicative e un background migratorio, e di come sia stata costruita una relazione basata su sguardi, gesti e fiducia:

“Poco alla volta, abbiamo imparato a capirci. Il padre ha visto suo figlio affidarsi, forse per la prima volta. Si è aperto uno spiraglio.”

Questa esperienza mostra quanto la relazione educativa possa essere potente e trasformativa.

Cosa manca e cosa funziona
Alla fine dell’intervista, Lia evidenzia:

“Manca il tempo per accogliere, progettare, fare rete. Manca personale formato, mediatori culturali, strumenti accessibili. E manca la volontà politica di investire sul lungo termine”.

Nonostante ciò, “funziona la presenza di chi si fa domande, cerca alleanze e prova a creare relazioni educative sane.”

Riflessioni professionali
1. L’importanza della reflective practice: nel mio lavoro di prevenzione al disagio nelle scuole primarie e secondarie ho avuto modo di constatare quanto integrare la pratica riflessiva sia utile per supportare insegnanti nella gestione delle complessità, favorire consapevolezza, prevenire stress e burnout, e trasformare difficoltà in apprendimento. Nelle sessioni di consulto per insegnanti:
- si decodificano i comportamenti come comunicazione;
- si costruiscono strategie condivise;
- si crea uno spazio protetto per dare senso alla fatica educativa.

2. L’inclusione come processo collettivo: nel mio lavoro mi rendo sempre più conto di quanto l’inclusione non sia un compito solitario della scuola, ma l’esito di un lavoro di squadra basato su alleanze, competenze multidisciplinari e pratiche condivise. In un sistema educativo che valorizza l’inclusione, ogni figura coinvolta gioca un ruolo essenziale, contribuendo a costruire un progetto comune che pone al centro i bisogni dei bambini/adolescenti.

3. Comunicazione e partecipazione attiva delle famiglie: le famiglie devono essere accolte e sostenute nelle loro ansie. Per questo motivo, nei miei progetti nelle scuole, creo e facilito spazi di dialogo e sostegno dedicati alle famiglie. Questi momenti di confronto contribuiscono a rafforzare il senso di appartenenza e valorizzare il ruolo genitoriale.

4. La centralità della relazione: la trasformazione educativa nasce da relazioni autentiche tra adulti preparati, bambini e famiglie, specialmente nella fascia 0-6 anni dove la comunicazione è spesso preverbale. È nella qualità di questi legami — fatti di ascolto, presenza e fiducia — che si costruisce lo spazio sicuro in cui ogni bambino può crescere, apprendere e sentirsi riconosciuto.

5. La necessità di una visione sistemica: per affrontare in modo efficace la complessità delle sfide educative attuali, è indispensabile adottare una visione sistemica, in cui la scuola sia concepita come un vero e proprio ecosistema educativo. Integrare un whole school approach significa promuovere una cultura del benessere condivisa, che coinvolga in modo coordinato tutte le figure che abitano la scuola: insegnanti, studenti, famiglie, personale scolastico e professionisti della relazione d’aiuto. Questo approccio permette di costruire un ambiente relazionale positivo, di individuare precocemente segnali di disagio e di attivare interventi tempestivi e mirati. I professionisti del supporto devono essere parte integrante e continuativa del sistema scolastico, non solo per affiancare gli insegnanti, ma per offrire spazi strutturati di ascolto, accompagnamento e trasformazione.

Conclusione: educare è un gesto collettivo
Essere insegnanti oggi, soprattutto nella scuola dell’infanzia, richiede una presenza costante e profonda, ma anche la consapevolezza che il compito educativo non può essere affrontato da soli. Educare è, prima di tutto, un atto condiviso: richiede il sostegno di una comunità, uno spazio in cui bambini, famiglie ed insegnanti possano crescere insieme. Per questo è necessario costruire una cultura educativa fondata sulla collaborazione, sul confronto tra professionisti e sul riconoscimento reciproco. Nessun adulto educa da solo: l’educazione è un gesto collettivo. Iniziamo da qui.

💬 Ti ritrovi in queste parole? Ti va di raccontare la tua esperienza? Contattami per condividere riflessioni, pensieri o semplicemente per continuare questo dialogo.

Bibliografia
Bion, W. R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando Editore. (Titolo originale: Learning from Experience, 1962)


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